Avevo deciso di non pubblicare altre anticipazioni del romanzo che sto scrivendo, ma oggi faccio un'eccezione perché, a mio modesto giudizio, questo capitolo merita e, soprattutto, si inserisce nel solco di un dibattito molto presente, in questi giorni, su tutti i media, compreso questo.
Memorie - Racconti - Narrativa
società e letteratura
martedì 23 febbraio 2021
Supernova - di Roberto Bertoni
sabato 30 gennaio 2021
Irène Némirovsky. L'odissea di una scrittrice inghiottita dalla Shoah - di Maria Cristina Serra, da Parigi, 27 gennaio 2011,
Il riconoscimento postumo di una grande scrittrice, dimenticata per oltre 50 anni, da parte della comunità ebraica, oltre che dal mondo culturale ufficiale, dopo il successo nel 2004 di Suite francese. La vita, le opere, i segreti familiari e del suo stile, che coniuga la tradizione del grande romanzo russo con quello francese, esposti in un'affascinate mostra al Mémorial della Shoah di Parigi
martedì 26 gennaio 2021
Lino Guanciale: “Il mio Ricciardi apre una finestra su una Napoli inedita”
Tratto da -napolitoday.it - Lino Guanciale: “Il mio Ricciardi apre una finestra su una Napoli inedita”
Lino Guanciale: “Il mio Ricciardi apre una finestra su una Napoli inedita”
„Foto di Anna Camerlingo“
Qualsiasi cosa tocchi Lino Guanciale si trasforma in oro. Tutte le serie che interpreta fanno il boom di ascolti, l’ultimo esempio è proprio di quest’anno con la stagione conclusiva, almeno per lui, de L’Allieva. Riempie i teatri riuscendo nella missione di portarci i ragazzi, in genere, un po' più refrattari.
Che piaccia al pubblico, soprattutto a quello femminile, è noto ma il vero successo di Guanciale sta nel saper bilanciare la sua carriera con ruoli pop, sempre scelti con sapienza e attenzione, e con ruoli drammatici, a volte anche aulici, in spettacoli teatrali altamente impegnati. In entrambi i casi si approccia con molta umiltà e grande impegno.
Da questa sera sarà di nuovo in tv con la prima delle sei puntate de Il Commissario Ricciardi, tratto dal famosissimo ciclo di romanzi scritti da Maurizio de Giovanni e dirette da Alessandro D’Alatri.
Il Commissario Ricciardi è il ruolo che probabilmente sintetizza la cifra della sua carriera in una produzione di sicuro successo. Un personaggio letterario estremamente popolare e che lui incarna non tradendo l’indole tormentata di Ricciardi. Infatti, chi conosce i romanzi e successivamente i fumetti della Bonelli, sarà contento di vedere in carne e ossa Luigi Alfredo Ricciardi, ritrovando nell'interpretazione fatta da Guanciale le caratteristiche che lo hanno fatto amare fin dalle prime pagine.
Lo stesso Lino Guanciale è rimasto conquistato da Ricciardi rassegnato a una vita solitaria dove non ci può essere un reale futuro. I suoi chiaroscuri lo hanno affascinato da quando era solo un semplice lettore di quell'uomo sui generis per la Napoli degli anni ’30, un barone ricco di famiglia, che decide di infischiarsi del titolo e beni di famiglia per fare il commissario di Polizia di Napoli. Una capacità investigativa fuori dal comune, basata sulla comprensione della vita e delle passioni umane e su una profonda empatia con la sua strana "dote" sconosciuta a tutti: vedere l’ultimo istante delle vittime di morte violenta e ascoltare il loro ultimo pensiero. Una maledizione che lo ha costretto a chiudere le porte all'amore. Vive una vita solitaria dove gli unici rapporti che si concede sono con la sua amata Tata Rosa (Nunzia Schiano), il suo fido e abile braccio destro, il brigadiere Raffaele Maione (Antonio Milo) e il dottor Modo (Enrico Ianniello), medico legale dalle idee antifasciste. Finché non incontra Enrica e Livia, due donne che volente o nolente lo portano a un’apertura. “Via via c’è una progressiva apertura al mondo che fa leva sull'amore” spiega Guanciale.
Quando lo incontriamo in collegamento ZOOM in occasione dell’attività stampa è come sempre affabile. Sorridente, al contrario del suo Ricciardi che raramente concede un sorriso.
Intervista a Lino Guanciale
Lino, Ricciardi è un personaggio fatto di poche parole ma di sguardi malinconici (lui guarda tanto), di mimica facciale che rivela il suo universo interiore, e anche di gestualità. Diciamolo, è un personaggio da teatro. Quanto ha aiutato la tua lunga carriera teatrale nella costruzione del personaggio e anche a entrarci?
“Assolutamente sì, in lui c’è tanto teatro. Con D’Alatri abbiamo cercato tra le pagine dei romanzi i tratti distintivi su cui costruire la versione visiva del personaggio. Ricciardi è un grande flâneur, nel senso che è un uomo abituato ad attraversare tutto da una certa distanza ma senza perdere alcun dettaglio degli altri esseri umani in un periodo storico complesso. Questo è un processo che generalmente un attore dovrebbe acquistare pari pari, per approcciare al mestiere mettendosi nei panni degli altri, osservandoli cercando di comprenderli empaticamente anche sospendendo il suo giudizio. Tutte cose che Ricciardi ha di suo e che fanno parte dell’imprinting teatrale che è quindi insito nel personaggio. Il background teatrale ha unito tutti noi partendo dal testo per non tradire la natura dei nostri personaggi, una cosa che si fa in genere in teatro. Di teatrale Ricciardi c’è proprio la sua visione del mondo. Metodologicamente, in genere, si costruisce partendo dalla lettera del testo che bisogna incarnare, trovando poi delle proprie soluzioni interpretative originali. In Ricciardi ho trovato un’assoluta sintonia del lavoro che in genere faccio in teatro”.
Il Commissario Ricciardi è affascinante anche per il suo dualismo e anche per gli ideali ai quali è aderente. È un personaggio letterario che ha subito conquistato. E’ probabile che questo grande successo sia anche dovuto al fatto che lui, come Maione, Modo ed Enrica siano personaggi tutti d’un pezzo rappresentando un’integrità tipica di un’altra epoca?
“E’ molto evidente come, con infinita genuinità e autenticità, tutti questi personaggi approccino alle proprie relazioni più strette in un mondo che invece inizia a essere velocemente complesso. In questo, secondo me, sono figure molto attuali, soprattutto se pensiamo alla nostra dimensione odierna, costretta a ristringersi nelle formule più primarie e basiche dell’affettività e dello stare insieme, che normalmente ha poche regole facili, che oggi vengono negate. In quest’integrità affettiva c’è un grammo di modernità che troviamo nella scrittura”.
Tu come primo elemento di approccio sei partito dalla sua indole empatica presente fin dall'infanzia nonostante lo schermo che mette tra lui e il mondo e di conseguenza alla rassegnazione e al tormento che ha a causa del ‘fatto’. Ciuffo ribelle a parte, quali sarebbero potuti essere i limiti e la difficoltà che rischiavano di verificarsi nell’ incarnare un personaggio letterario così vivido nello spettatore grazie anche delle graphic novel che sono state realizzate?
“Sicuramente Ricciardi è stata una scommessa per la sua popolarità. L’obiettivo è la resa dello spirito di un uomo tormentato dai suoi dolori e dal fardello del dono maledetto che si porta dietro proprio per dargli maggiore autenticità. Spero di esserci riuscito. Io sono entrato con massima umiltà nell’interpretazione di questo personaggio che mi ha affascinato prima ancora come lettore avendomi subito incuriosito quando, anni fa, divenne un caso letterario. Come lettore mi sono fatto dei teatrini immaginari sul suo mondo che mi hanno incantato. Quando mi è stato comunicato che ero stato scelto per interpretare questo bellissimo personaggio ho fatto subito leva sull'imprinting che avevo avuto partendo da quegli elementi di fascinazione che mi avevano colpito da lettore. Questo ha contribuito a restituire elementi di verginità al lavoro evitando di inciampare nel rischio di tradire la natura del testo e anche quello del personaggio. Inoltre, fondamentali sono stati anche i suggerimenti di Maurizio de Giovanni dandomi delle coordinate su come sia stato costruito il personaggio di Ricciardi”.
Parlavi di elementi di fascinazione. Tipo?
“E’ difficile non innamorarsi di Ricciardi. La sua seduzione non è assolutamente intenzionale, anzi, lui si scherma dalla realtà e cerca una via di salvezza dal dolore che lo lacera. Una riflessione che io ho fatto per deformazione professionale basandomi anche dalla descrizione che de Giovanni fa di lui bambino, prima che lui scopra di possedere ‘il fatto’, è quella di un bambino gioioso, socievole, caratteristiche che non sono totalmente scomparse in lui. Si è messo poi una corazza che l’hanno fatto chiudere che va contro forse ai suoi reali istinti e desideri di apertura verso il mondo. E’ un empatico malgrado sé stesso. Poi va considerato anche il contesto storico in cui si muove Ricciardi: lui ha un potere paranormale in un’epoca che ha messo a dura prova l’umanità a causa dei regimi totalitari che influenzavano il pensiero della gente. Sono tutte cose che hanno aiutato e che per me sono stati importanti per aderire a questo personaggio partendo da questa piccola porticina”.
Quanto è stato importante avere una idea di regia chiara come quella data da D’Alatri?
“Io ho avuto la fortuna di avere molti maestri e di avere avuto registi che sono stati dei padri loro malgrado, come Luca Ronconi, Franco Branciaroli e Massimo Popolizio. Ritengo, che l’incontro con Alessandro D’Alatri sia arrivato in un momento mio professionale in cui avevo bisogno di una guida come quella di Alessandro. Avevo proprio la necessità di avere un confronto vivo come ho avuto con lui: molto discutendo, molto condividendo e molto costruendo l’immaginario comune sui personaggi e le situazioni con le nostre divertenti chiacchierate, è stato poi capace di prendere da me da tutti gli attori ciò che più giusto. Lo ringrazio tantissimo perché è stata un’opportunità di crescita molto forte. Ho avvertito uno switch importante e credo che si avverta”.
Dopo le stagioni di Non dirlo al mio capo e il film I Peggiori, Il Commissario Ricciardi ti riporta a Napoli. Cosa avete cercato di restituire nella creazione complessa della Napoli degli anni ‘30?
“Anche per questo ritengo un privilegio averlo interpretato perché è una sfida su più livelli. Una di queste è quella di aprire una finestra particolarissima su una Napoli inedita con il Fascismo in piena espansione; l'attitudine eterna, dei napoletani, il coraggio, di sopravvivere alle sfide imposte da certe situazioni. Una città diversa da quella che siamo soliti vedere rappresentata. Spesso sentiamo anche parlare a sproposito solo della Napoli violenta e criminale dimenticando la cultura, la musica, il teatro. Ricordiamoci che questa è l'unica città invasa ad essersi liberata da sola dall'occupazione nazista. Grazie al coraggio, allo spirito di iniziativa, di tanti, tra questi moltissime donne”.
I set sono aperti ma cinema e teatri restano chiusi. Penso che questo sia stato il primo anno che tu non sia andato in tournée. Come la stai vivendo?
“Parafrasando il titolo della prima puntata, Il Senso del dolore, che andrà in onda stasera, mi viene da dire che è un dolore senza senso. I teatri e i cinema sono stati luoghi sicuri dal punto di vista del contagio, come hanno affermato molte statistiche. Si è scelto di chiuderli seguendo anche una logica comprensibile per evitare spostamenti serali al di fuori di quelli lavorativi. Si è anche disposti anche ad accettarlo per mettere al primo posto la salute di tutti noi. Quello che lamento è la mancanza di trasparenza. Ci sta che non si abbiano le idee chiare di fronte a un’emergenza che non ci si è mai trovati ad affrontare. Ma d’altra parte, sapere a quando sarebbe destinato il nostro ritorno, predisporrebbe coloro che fanno teatro a organizzarsi meglio sia praticamente sia alla necessità di prepararsi a questo ritorno che non può essere sistemato con ‘Ops, c’è stato un blackout, adesso siamo tornati quelli di prima. No, il teatro adesso si deve organizzare per raccontare il mondo che è cambiato. C’è bisogno di sapere che tipo di destino vogliamo dare a tutto questo. E poi c’è anche un’altra scoperta che è venuta fuori che invita a una riflessione d fare…”
Che riflessione?
“Penso che gran parte dell’opinione diffusa sia quella che noi siamo quelli che fanno divertire, per cui ci si può anche fermare un attimo. Parte della responsabilità di quest’opinione che circola è nostra. Perché non ci siamo preoccupati abbastanza di raccontare una cosa che ancora oggi facciamo fatica a raccontare. Per esempio, chiedi a un’artista perché è necessario il suo lavoro, pochi riescono a essere efficaci e precisi, perché non ci siamo mai trovati nella situazione di doverci difendere. Partivamo dall'idea che il nostro lavoro fosse riconosciuto come utile, e oggi abbiamo scoperto che non è esattamente così. A questo punto noi dobbiamo essere i primi a capire perché siamo utili, che scopo ha il mestiere che facciamo”.
Come suggerisce anche il tuo attuale look sei nel pieno delle riprese della nuova serie Sopravvissuti.
“Sì, gireremo fino alla primavera tra Roma e Genova. E’ un thriller, che ruota attorno alla storia di un naufragio: i protagonisti sono dispersi e creduti morti e dopo un anno tornano a casa con bel po' di segreti. E’ la storia del forte strappo tra coloro che restano e quelli sopravvissuti al naufragio. Il cast è internazionale e a dirigere c’è Carmine Elia, il regista de La Porta Rossa, altro punto di riferimento sul set con cui ormai ho avuto la fortuna di aprire un sodalizio artistico”.
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Lino Guanciale: “Il mio Ricciardi apre una finestra su una Napoli inedita”
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domenica 24 gennaio 2021
Pierino. di Giovanni Pascoli.
Questa poesia è poco conosciuta e se ne trovano anche versioni monche o leggermente differenti. Per me resta un poema dolcissimo e struggente. Lo so, Pascoli è stato considerato un decadente e ormai si studia sempre meno. Io mi auguro che questa nostra epoca, così gretta, meschina e materialistica, possa sperare di trovare molti “decadenti” come Pascoli.
Il bimbo nacque e la mamma morì.
La morte nel suo cammino
com’è distratta a volte
dimenticò di prendere il bambino.
Un anno dopo il padre
riprese moglie, e il bimbo
aveva il torto d’esserci.
Un buon vecchio il piccino
accettò ch’era di troppo.
Chiusi gli occhi
tenea nella sua culla
e la boccuccia mezza
aperta al sonno,
il vecchio in braccio
si recò quel nulla
caldo, e divenne padre;
Era suo nonno.
Quando si resta soli al mondo,
un po’ di più, che c’è di meglio a fare
ch’esser mite e buono?
Essere quello che, via, via che passa
gente ne spera il piccioletto dono?
Quello che gente picchia alla sua porta
ed ei s’affaccia col pio capo bianco?
Quello che prende su ciò che ha lasciato
di sè la madre morta?
Quello che al bimbo che ricerca il petto
di mamma e annaspa con le sue manine,
porta la capra che lascia il capretto
sopra le balze alpine?
Dunque Pierino nacque,
fu povero orfanello, ebbe gli occhioni
di cielo con del latte il riflesso, e poi, bel bello
quel solitario balbettio sommesso
che par la boschereccia d’un uccello:
fu l’angelo ch’è l’uomo
avanti d’esser uomo: ed il suo nonno
lo contemplava al mo’ che si contempla
un cielo che si dora:
e quel tramonto amava quell’aurora.
Il nonno lo portò nella sua casa
antica e grande in mezzo a un gran giardino.
Oh! quanto verde! Intorno, c’erano peri e meli
un tremolar di steli,
frulli di foglie e d’ale
un gridio di cicale
nel greve mezzogiorno,
e poi tra lusco e brusco
i pigolii sommessi dei nidi sui cipressi
e cinguettii di polle,
e lo sdrucciolo molle
dell’acqua in mezzo al musco;
era per l’angioletto un paradiso
quell’antico giardino!
Al Paradiso s’avvezzò Pierino.
Sua balia era una capra,
suo fratello di latte era un capretto
e il caprettino adesso già faceva
le sue corse ed i suoi balzi
e l’omettino anch’esso
volle incignare i suoi piedini scalzi
e fece il primo passo
e fatto il primo volle farne un altro…
un altro, un’altro.
E via col capo avanti
e con le braccia avanti,
trempellando, nuotando, vacillando
fra le tremule mani del buon avo,
che gli era intorno e gli dicea:
“Vieni, oh! non ti tengo più…
là… là… là… bravo
Oh! bei giorni sereni
com’erano contenti!
S’udian due risatine a quando a quando
ch’eran tutte e due la gentil cosa
ch’erano tutte e due color di rosa
senza biancor di denti.
Egli era il re, suo nonno
era il suo servo: “Babbo aspetta!”
il nonno aspettava
“No vieni” egli veniva
“Ridi” rideva
“Canta” cantava.
O Famigliuola
fra i nidi e l’ombre,
sola, sola, sola.
L’uno, due anni, e l’altro sugli ottanta
l’uno diceva le ultime parole,
l’altro le prime
ed erano le stesse.
Diceva il nonno al bimbo le più care
le meglio che sapesse per farlo compitare
Dicea: “Pierino, core del mio core”
e lui: “Pielino, cole del mio cole”.
Li benediva il sole.
E suo padre? Suo padre
Vivea con l’altra moglie: e nella casa
Intanto era un novello essere entrato:
a Pierino era nato
un fratello, e vagìa nella sua culla,
Pierino non sapeva
E non vedeva nulla;
avea suo nonno, e molto era beato.
Altro per lui non c’era.
E suo nonno, una sera,
morì… non se ne accorse
Pierino; non capì. Spesso suo nonno
Gli avea detto: “Pierino,
presto, domani forse,
morrò: questo tuo povero nonnino
che ti voleva tanto tanto bene,
non lo vedrai mai più…” Sì; ma Pierino
non lo capiva un sonno
che non ha un caffè e latte al suo mattino!
Un prete andava innanzi mormorando
Le sue preghiere. Verde era e fiorita
La campagna, odoravan le siepi.
Alcuni vecchi raccogliean la voce
Del prete con un brontolio discorde.
Una vacca aggiaccata sopra un greppo
Li guardò coi suoi grandi occhi materni.
Dietro l’umile cassa era il piccino.
Si giunse al camposanto solitario
Cinto d’una marèa verde di felci,
senza cipressi, senza monumenti,
pieno solo di croci e di fiorranci.
S’entrava da un cancello, che la notte
Si chiudeva. Alle verdi aste di legno
S’attorcigliava un’edera. Pierino
(perché mai?) si fermò con gli occhi fissi
A riguardare il tremulo cancello.
Dopo due mesi…- “Brutto!
Sudicio! Sporco! Non si può guardare!
Via! Non lo voglio a tavola. Oh! Ecco
Io non lo reggo più! Mangia lui tutto!
Domani acqua e pan secco!
Lèvati, brutto! Vattene, cretino!
Nato male!” A chi parla ella…? A Pierino.
O povero Pierino!
Dopo portato il nonno al camposanto,
venne un uomo (suo padre) e una donna
con un bambino, l’altro. E quella donna
l’aborriva, e Pierino non capiva.
Ma pianse, e quanto! Quanto!
S’addormentava a sera
con gli occhi pieni zeppi del suo pianto;
li riapriva a giorno
con una meraviglia nera nera.
“O dov’è?” –non appena era veduto,
“che fai costì?” – gli si diceva, ed esso
a poco a poco s’appartò nell’ombra:
Era come una culla
Che si affonda nell’acqua a poco a poco.
Non rise più: gli presero i balocchi
Suoi, per darli a quell’altro. Non un giuoco
più: non parlava più: solo con gli occhi
grandi cercava intorno.
Il cocchino d’un tempo
diventò l’appestato, il maledetto.
Suo padre non vedeva: egli vedeva
con gli occhi della moglie!
Oh! Era stato un angioletto; ed ora?…
Gli si diceva: “Al diavolo…” La cosa
Però finiva in baci ed in carezze….
Oh! Non a lui – “Mio bottoncin di rosa!
mia gioia e luce! Vita mia! Cuor mio!
Io v’ho lassù rubato
Il più bello dei vostri angioli, o Dio!
Io porto il vostro paradiso in collo!”
Pierino in terra, muto, in un cantuccio,
si ricordava un po’…Quelle parole
Non gli eran nuove. Non piangeva. Il viso,
Lo smunto suo visino,
voltava in là. Guardava fiso fiso
all’uscio del giardino.
senza cipressi, senza monumenti,
Una sera…una sera
lo cercano: non c’era
più. Dov’era? D’inverno!
per una nottataccia orrida e buia!
La neve avea coperte
Le tracce dei suoi piedi. Ecco, e Pierino
Si ritrovò soltanto
Sul fare del mattino.
Qualcun nella nottata
avea creduto di sentir per aria
Una voce di pianto,
Una voce di vento solitaria:
“Papà! Papà! Papà!” Tutto il villaggio
Cercò di qua, cercò di là. Pierino
Era nel camposanto.
Egli era steso, freddo come pietra,
avanti quel cancello.
Com’era giunto per la gran pianura,
dentro la notte scura,
Sino all’entrata? Delle sue manine
Una toccava un’asta del cancello.
Avea voluto aprire.
Lì dentro era qualcuno che l’amava!
Avea chiamato tanto! Tanto! Tanto!
“Papà! Papà! Papà!”
Era caduto alfine,
rimpetto al camposanto.
Pierino s’era anch’esso addormentato
A quattro passi dal suo vecchio amico.
L’avea chiamato: il nonno
Non si destava: e allor gli pigliò sonno.
giovedì 31 dicembre 2020
A Claudia Alivernini con affetto e riconoscenza
Ricordo, perchè li ho vissuti, i frettolosi risvegli notturni sotto il suono lugubre delle sirene, il rombo dei bombardieri, le fiamme in cielo dei razzi illuminanti che scendevano lenti appesi a dei paracadute, le fiamme in terra delle case che bruciavano. Il terrore delle persone in fuga, i cadaveri tra le macerie e... molto altro. Sì, andava male, erano altri tempi c'era la guerra e andava malissimo ma c'era anche la speranza, un desiderio di fratellanza e di mutuo soccorso, un sentirsi uniti da terribili eventi, ma oggi?... Oggi che stiamo per abbandonare un anno a sua volta terribile, e che mai come ora dovremmo sentirci solidali e affratellati mi cadono letteralmente le braccia e provo nausea, disgusto e schifo. No, non per le conseguenze del Covid19, non per l'insipienza dei governanti, non per le difficoltà che giornalmente dobbiamo affrontare, ma per la consapevolezza che siamo assediati da migliaia di esseri disgustosi e ignobili che odiano e offendono per il solo gusto di odiare e offendere, gente dalla mente putrida e bacata che è arrivata al punto di insultare e augurare la morte a quella dolce e timida infermiera alla quale l'ospedale Spallanzani ha chiesto di dare l'esempio e di essere tra le prime a vaccinarsi. Una fanciulla che sta trascorrendo i suoi giovani anni soccorrendo i malati gravi e rischiando la vita. Una che ha dovuto chiudere il suo profilo social per le minacce e gli insulti ricevuti per il solo fatto di essersi vaccinata, ed io, mai come oggi, mi vergogno mi essere italiano e di vivere in un paese nel quale, tramite internet, è riuscita a germinare e a diffondersi una feccia così fetida e immonda di odiatori e di striscianti esseri che sputano veleno e contaminano l'aria ancor peggio del peggior virus.
domenica 27 dicembre 2020
Addio, Mario Piga
Domenica mattina, manca un quarto d’ora alle otto. Nessun suono nell'aria; un tempo, un tempo molto lontano, dalla chiesa qui vicina giungeva il rintocco sonoro e accattivante delle campane. Poi le campane sono state ammutolite e il loro suono è stato simulato da un registratore che, mediante degli altoparlanti, diffonde dei rintocchi che con quelli vibranti e struggenti delle campane vere non hanno nulla in comune. Oggi anche l’altoparlante tace, la città è spettrale, silenziosa e vuota. L’aria è attraversata dal frullare delle ali di un gabbiano, anche i colombi, che un tempo volteggiavano a frotte, sono scomparsi. I piccioni temono come la peste questi gabbiani feroci e sanguinari che giungono fin qui dal mare in cerca di cibo. Non mi piacciono i gabbiani, sono eleganti con le loro grandi ali ma sono più crudeli e aggressivi dei falchi, e spesso gli altri uccelli diventano la loro preda.
Nelle strade deserte e vuote appare un camioncino bianco, un cancello si spalanca, il furgone si immette in un vialetto in discesa e si ferma all'interno di un cortile. Ne discendono due uomini con una tuta rossa, evidentemente si tratta di un mezzo del pronto soccorso e, in quel palazzo, qualche altra tragedia si sta consumando.
Il mio pensiero vola a una persona che non c’è più. Una persona che spesso compariva su questa pagina. Era un amico. Si, può sembrare strano perché a volte siamo stati in contrasto a causa delle sue espressioni spesso fin troppo irruente e sprezzanti nei confronti di certi avversari politici. Talvolta mi ha irritato, è vero, ma le sue invettive erano oneste e sincere, profondamente sentite ed espresse con vigore e senza malizia dal profondo dell’animo suo. L’ho capito, e anche se non ero d’accordo l’ho accettato. Era comunque un amico e gli amici si accettano anche se non condividiamo le loro idee che, comunque, hanno il sacrosanto diritto di esprimere. Che dire? L’ho accettato e me ne sono ritrovato amico al di là di quanto avessi potuto immaginare. E ora mi manca. Si, Mario, ora mi manchi e rimpiango le tue invettive contro certi... idioti. Invettive che ti uscivano dall'anima, un’anima onesta e sincera e quindi, anche solo per questo, apprezzabile. Spero solo che tu non abbia sofferto e che l’angelo nero ti abbia portato via in silenzio durante il sonno. Non sarà facile dimenticarti e non lo faremo. Io non lo farò. Addio, caro vecchio impetuoso e focoso amico, ci mancherai. Mi mancherai.
sabato 26 dicembre 2020
Coronavirus
Apro gli occhi, un’occhiata al quadrante luminoso della radiosveglia mi fa sussultare: sono le 8:45! Strano. Di solito in questi ultimi giorni mi sveglio molto prima, e ricordo bene di essermi coricato verso le 23:30. È un’abitudine che ho preso da poco, di solito restavano sveglio fino alle tre o anche alle 4:00 del mattino e mi alzavo tardissimo, ma ora, dopo la cena e mentre guardo qualche spettacolo televisivo gli occhi mi si chiudono, mi ritrovo a sonnecchiare e preferisco coricarmi. La luce del giorno penetra attraverso gli scuri, mi alzo lentamente evitando movimenti bruschi alla mia schiena indolenzita e mi sciacquo velocemente il viso con l’acqua calda. Finalmente, dopo alcuni giorni di lavoro degli operai, la caldaia ha ripreso a funzionare! Inzuppo la spugna nell'acqua bollente e me la appoggio sugli occhi. Il calore mi fa bene e mi rischiava la vista. Mi metto faticosamente calzini, un gesto semplice che gli anni hanno reso difficile. Indosso un mio pesante e antiquato pigiama di flanella e una vestaglia di pile. Spalanco la porta finestra e apro gli scuri: una folata di vivificante aria fredda mi investe, respiro a pieni polmoni. Fuori, un’acquerugiola stanca continua a riversarsi da un cielo cupo e nuvoloso. Durante la notte ha piovuto molto, la temperatura è scesa e l’aria è gelida. Un colombo infreddolito svolazza e si posa su di un lampione. Sembra l’unico essere vivente ancora in giro. Le strade sono deserte, non si sente alcun suono e non si vede anima viva. Oggi è sabato, è il 26 dicembre di questo disastroso anno duemilaventi. La città è immobile, muta e silenziosa ricorda i paesaggi spettrali dei film di fantascienza dopo che qualche misterioso morbo ha sterminato l’umanità. Il morbo in effetti esiste, è quel dannato Coronavirus, detto anche Covid19 che da oltre un anno si sta diffondendo nel mondo intero e ci sta costringendo ad una vita asociale e sempre più squallida. Pare che uno dei tanti vaccini che l’umanità ha faticosamente e velocemente elaborato sia in arrivo. Considerata la scarsa organizzazione imperante, mi chiedo quanto tempo sarà necessario prima che la maggior parte di noi possa essere vaccinata: sei mesi? Un anno o forse due? Quanti morti e quanti disastri ci attendono ancora? Un tempo consideravo la vita con ottimismo, ora non più.
lunedì 16 novembre 2020
Potrebbe uno scrittore essere identificato solo dalla sua punteggiatura? di Rose Bazzoli - 27 luglio 2020
Sì. Una volta lessi un libro con dei periodi lunghissimi, pochi punti e un uso sapiente di virgole e punti e virgola. Si tratta di un libro di racconti di Marco Zucchini: "La vuelta al perro" ed. Gilgamesh. Bel libro. Il titolo vuol dire in pratica 'la passeggiata del cane', che è uno dei racconti. Mai visti dei periodi così lunghi, eppure ben scritti, nella letteratura contemporanea. Quelli che dicono che il punto e virgola è morto dovrebbero leggere questo libro. Lo stile lo riconoscerei subito e infatti, a distanza di anni, lo ricordo ancora, insieme a titolo e autore.
Un altro esempio di punteggiatura riconoscibilissima, o meglio, di assenza di punteggiatura, è quella nell'ultimo capitolo dell'Ulysses di James Joyce. È il famoso monologo di Molly Bloom, oltre quaranta pagine dove troviamo due soli segni di punteggiatura in otto lunghissime frasi nelle quali Molly comincia pensando a una richiesta che il marito le ha fatto il giorno prima, per passare poi a considerazioni sui propri amanti, su di sé, sugli altri personaggi del romanzo, in un flusso incessante di idee, ricordi e sensazioni che scorrono liberamente senza pause, proprio come fanno spesso i pensieri.
L'assenza di punteggiatura rende meravigliosamente lo stream of consciousness ed è una caratteristica specifica che ci fa subito riconoscere il brano di questo autore.
OK il flusso dei pensieri, ma c'è chi ha voluto riprodurre nello scritto lo stile concitato del parlato, omettendo o limitando al massimo la punteggiatura, come fa Buzzati nell'incipit di Sciopero dei telefoni:
«Da principio udii due donne che parlavano, caso strano, di vestiti. “Niente affatto io dico i patti erano chiari lei la gonna me la doveva consegnare giovedì e adesso siamo a lunedì sera le dico e la gonna non è ancora pronta e io sa che cosa faccio, cara la mia signora Broggi io la gonna gliela lascio e se la metta lei se le accomoda!”»
C'è chi si è chiesto se la punteggiatura di un autore, considerata nella sua nudità, possa rivelarsi così distinta da tutte le altre e l'ha estrapolata dal testo, creando alcune opere entrate oramai nel Canone. Il confronto fatto da Adam J. Calhoum tra una porzione senza testo di McCarthy e una di Faulkner, per esempio, fornisce il seguente risultato:
E cosa accade, convertendo i segni in colori? Le pagine di Faulkner (a destra) diventano così:
Ma guardate un estratto da un altra opera:
Si potrebbe ben dire che la punteggiatura "dia colore" al testo? No, perché qui il testo è stato del tutto eliminato ed è la punteggiatura a farla da padrona. Ma siamo più nel campo delle sperimentazioni artistiche, che letterarie, anche se taluni autori sono riusciti a fare uso di questa tecnica di punteggiatura libera dal testo.
Hemingway per esempio ha usato a volte le virgolette con all'interno uno spazio bianco, per rappresentare un dialogo silenzioso:
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(lo spazio ovviamente dovrebbe essere più lungo)
Per restare all’impiego di segni di punteggiatura autonomi dal testo scritto, pensiamo anche ai fumetti, dove, interni o esterni al balloon, spesso giganteschi, hanno la funzione di visualizzare metaforicamente uno stato d’animo: uno o più punti esclamativi e interrogativi indicano convenzionalmente sorpresa (!!!) o dubbio, incertezza, incomprensione (??) o (!?).
In Baricco (City, Rizzoli, 2003) troviamo i puntini tra le virgolette, a indicare il dialogo silenzioso:
«E quindi la licenzio, signorina Shell».
«Prego?»
«Sono costretto a licenziarla, signorina».
«Sul serio?»
«Mi spiace».
«…»
«…»
«…»
«…»
Giuseppe Pontiggia, nel suo L’arte della fuga, conduce la possibilità del dialogo tra segni interpuntivi ad un livello d’elaborazione ulteriore, arrivando a riempire le battute del suo dialogo con segni matematici (un chiaro intento provocatorio):
«Chi è?» domandò dietro l’uscio l’ingegnere, asciugandosi il viso.
«(+) (+ -)».
«Ah, sei tu» disse l’ingegnere. Aprì la porta.
«Stavo uscendo» aggiunse. «Mi dispiace. Questa sera devo uscire».
«(° + - +)?»
«No. Con un’altra. È una commessa dell’UPIM».
«(& ∞ ! ’’’’ + ^ +) (- ^^) ?»
«Non ancora. Ma presto».
«(^ + -) = (^ + -)».
«Grazie».
A partire dagli anni Ottanta del Novecento, è il punto a regnare sovrano, con periodi brevissimi. In Baricco troviamo anche l'assenza dei segni grafici del discorso diretto, come in Questa storia (2005):
Non so.
È una sensazione.
Sì, forse.
È quella cosa lì.
Sì.
E adesso ripensa a Butford, Elizaveta.
Butford.
Sì.
Okay, lo sto pensando.
Cosa ti sembra?
Uno schifo.
Ecco.
Paolo Giordano, invece, ne La solitudine dei numeri primi fa totalmente a meno del punto e virgola, anche se non si può dire che questo segno abbia disertato del tutto la letteratura degli ultimi anni.
-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-
Insomma, come la lingua è in continua evoluzione, così è la punteggiatura, anche se, a meno di essere già scrittori affermati, sarebbe meglio, per noi comuni mortali, attenersi alle regole generali imparate a scuola (fatta eccezione per certe "manie" delle maestre di un tempo, ma questa è un'altra storia).